San Patrignano, ecco come tutto è cominciato

19 Apr 2021

Dalla nascita della comunità ad opera di giovani volenterosi ed idealisti fino ad arrivare ai giorni nostri: l’intervista ad una delle fondatrici, Fabrizia Mini

Ha assistito alla nascita di San Patrignano, cosa l’ha spinta a investire in questo progetto? Avrebbe mai immaginato che San Patrignano potesse aiutare così tante persone?

“Sicuramente all’inizio, nessuno dei così detti ‘vecchi di San Patrignano’ avrebbe potuto immaginare un’esplosione di questo tipo o uno sviluppo ed una grandezza della comunità e del messaggio di San Patrignano come poi si è avverato. Cosa mi ha spinto? Io all’epoca, negli anni 70, stavo terminando l’università e noi ragazzi ricercavamo una realizzazione della nostra esistenza, il più possibile positiva: guardandomi attorno, insieme a quello che è poi diventato mio marito, vedevo un mondo in forte difficoltà, diversi amici che si stavano distruggendo con la droga e quindi quando ci hanno proposto di aiutare una ragazza che altrimenti sarebbe dovuta entrare in una struttura psichiatrica, insieme ad altri ragazzi che la pensavano come noi, ci siamo adoperati per aiutarla. Elisabeth è stata la prima ragazza che San Patrignano ha aiutato, noi la chiamavamo Betty ed era una ragazza bellissima, molto intelligente, estremamente colta, aveva un passato di droga che le aveva creato notevoli difficoltà a relazionarsi. Non è stato semplice, ma estremamente complicato anche perché noi tutti lavoravamo, quindi per affiancarla, avevamo predisposto dei turni per riuscire a restare con lei ogni momento della giornata e della notte, così abbiamo vissuto con lei la nostra prima esperienza. Questo è stato l’inizio di San Patrignano”.

San Patrignano come tutti sappiamo è la prima comunità di recupero di tossicodipendenti in Europa, com’è stato creare questa comunità partendo da zero e senza poter confrontarsi con altre realtà simili?

“Beh, non è stato per niente semplice, proprio perché non c’era nessuno che potesse suggerire delle correzioni, consigliare dei metodi, indicare delle possibilità educative, incoraggiare e sostenere nel guidare questi ragazzi, quindi sono stati i ragazzi stessi che di volta in volta ci indicavano cosa sarebbe stato giusto fare in quel determinato momento. Un aneddoto che mi piace ricordare risale proprio ai primi anni quando in comunità c’erano diversi ragazzi, circa una decina, il loro percorso dopo le prime difficoltà sembrava evolversi positivamente, quindi per premiarli abbiamo pensato che sarebbe stato giusto farli uscire una sera per mangiare una pizza e divertirsi, quindi abbiamo dato loro la macchina e i soldi necessari per la serata. Loro cosa hanno fatto? Sono andati subito a cercare la droga per farsi, oggi possiamo affermare che fecero la cosa più scontata, ma a quei tempi a noi parve una cosa assurda. Quando i ragazzi tornarono erano veramente dispiaciuti e ci fecero capire che non erano pronti per immergersi nella stessa realtà dalla quale stavano cercando a fatica di togliersi: i soldi che avevamo dato loro, erano il mezzo che conduceva alla droga e quindi questo fecero! Non sapevano gestire il denaro diversamente. San Patrignano è nata piano piano, facendo anche tanti errori perché nessuno di noi era un terapeuta, inoltre dobbiamo ricordare che negli anni ‘70 non esistevano terapie o comunità terapeutiche per tossicodipendenti e questi venivano lasciati a sé stessi. Quindi è stato un percorso lento all’inizio ma molto importante e fondamentale perché ha insegnato a tutti noi che cosa era giusto fare, in tutti questi anni solo il discorso di grande umanità, solidarietà e senso civico, di attenzione ai rapporti, al rispetto delle persone, di amore profondo verso ogni persona… è rimasto per San Patrignano fondamentale!

Ovviamente all’inizio nessuno sapeva della vostra esistenza, come avete fatto per raggiungere chi aveva bisogno del vostro aiuto?

“Nessuno di noi ha dovuto cercare i ragazzi, anzi, era un momento in cui purtroppo in Riviera, nelle università, nelle città, c’erano ovunque tanti tossici e tante famiglie disperate. Sono stati i ragazzi che ovunque e continuamente chiedevano una mano. Le mamme, quante mamme disperate e in lacrime chiedevano aiuto alla porta di San Patrignano! Questa era la normalità.”

Sicuramente non è stato semplice creare questo sistema, ci sono stati momenti di difficoltà che vi hanno portato a dubitare sulla scelta di portare avanti questo progetto?

“Il progetto è un progetto di vita, che impegna a 360 gradi. Non esiste un orario d’ufficio dal quale poter smontare timbrando il cartellino, soprattutto quando un ragazzo mostra una fragilità, un momento di difficoltà, di complessità, di dubbio. Bisogna pensare solo ad aiutare chi è in difficoltà, il tempo scorre senza altri interessi se non affiancare chi sta vivendo una sua problematicità. In questo percorso è stato fondamentale Vincenzo, perché con la sua attenzione e grande sensibilità ci ha mostrato con chiarezza la strada da percorrere. Sentirsi stanchi fisicamente accadeva spesso ma dubitare della scelta di portare avanti questo progetto è tutt’altra cosa.”

San Patrignano ospita circa 1.200 tra ragazzi e ragazze di tutte le età, un numero veramente elevato. Come sappiamo ogni persona ha esigenze diverse, come siete riusciti a creare un metodo di recupero che sia funzionale per tutti?

“Mi rendo conto che sembra strano, ma il metodo lo hanno delineato di volta in volta i ragazzi man mano che prendevano consapevolezza del proprio essere, chiedendo di modificare il percorso in base alle loro fragilità. Il progetto si è formato quindi nel tempo, si è modificato in base alle tante persone che sono entrate a San Patrignano”.

C’è un ricordo a cui tiene particolarmente?

“I ricordi sono tanti e tutti hanno un posto indelebile nella memoria e nel cuore ma a me piace ricordare il momento in cui Elisabeth, dopo il suo percorso, si stava organizzando per rientrare in famiglia, negli ultimi giorni aveva preparato dei dipinti molto particolari ed ha voluto regalarli.

A me ha donato una pittura che è tutt’ora appesa nel mio salotto, rappresenta il profilo di un viso, con colori molto scuri che si sovrappongono, ma vi è il colore bianco che incomincia a prendere forma ed a delinearne le sembianze donando luce. Questo quadro a me è sempre piaciuto e mi rasserena, forse perché ho la certezza che la luce dentro ad ognuno di noi c’è, bisogna darle modo di venire fuori ed Elisabeth, come tutti questi ragazzi, la stanno tirando fuori e stanno mostrando a tutto il mondo la loro bellezza.

Qual è la più grande soddisfazione che ha ricevuto portando avanti questo progetto?

“Ogni giorno ci sono piccoli momenti, piccole cose che ti riempiono il cuore: l’abbraccio, lo sguardo, ma anche il pianto o la sfuriata. Io seguivo il gruppo degli studenti e dei ragazzini che cercavano di modificare e recuperare il proprio rapporto con la scuola. Quando iniziavano a studiare, a riprendere il ritmo giusto nello studio, mi sentivo felice, ma non tanto perché avevano eseguito correttamente un esercizio o avevano ottenuto il primo voto positivo, ma perché avevano capito che la cultura è una cosa importante che servirà a loro per venire fuori da un disagio esistenziale che li ha oppressi”.

Sicuramente sono stati anni molto impegnativi, se potesse tornare indietro, rifarebbe la stessa scelta? Se sì, per quale motivo?

Il motivo sicuramente è lo stesso che ha spinto sia me che mio marito più di 40 anni fa a scegliere questa strada, cioè l’esigenza di aiutare gli altri, senza rimanere a guardare una generazione di giovani mentre si autodistruggeva. È stato un momento fondamentale nella nostra vita, e che fosse una scelta giusta lo dimostra la schiera di ragazzi e ragazze, bambini e adulti che hanno vissuto ed ancor oggi vivono la comunità di Sanpa e che sono rinati non solo nel fisico ma anche e soprattutto nel loro modo di pensare, di vivere le relazioni, i rapporti e la propria vita. Quindi sì, lo rifarei”

Gabriele Ghiotti